da Diario di Elio
Schmitz, a cura di B. Maier, Dall'Oglio, Milano 1973, pp. 296-97.
Cosa hanno in comune il giovane friulano Giulio Regeni e il fratello di Italo Svevo? Forse nulla, forse chissà solo la paura. Cosa ho io, invece, in comune con il ricercatore dell'università di Cambridge? Ancor meno di nulla, niente. In questi giorni mi trovo nel vivo delle mie ricerche sveviane, e lo sguardo fermandosi su questo passo del Diario di Elio mi rimanda ossessivamente alla vicenda del ricercatore, cittadino del mondo, barbaramente ucciso mentre svolge il suo lavoro. Penso ossessivamente al male che la vita può da un momento all'altro riservare a un figlio cresciuto e formato nel migliore dei modi possibili, come ogni genitore vorrebbe.
Fra mondi
di carta e vita reale: governare la paura nella lunga lotta contro il male.
Da qualche anno indago il sentimento del male espresso attraverso la letteratura, e di recente mi è capitato di riflettere anche sul tema della paura. In questo spazio che raccoglie la mia vita come un diario (versione digitale dello Zibaldone cartaceo inaugurato al liceo, su suggerimento del docente di lettere), voglio fermare alcune riflessioni che mi permettono di portare avanti il mio lavoro, si tratta di premesse indispensabili senza le quali non riuscirei a scrivere nulla.
Una ricerca sul male apre innanzi al critico,
intento a ripercorrere questo rapporto, un campo di indagine sterminato. Lo
studioso si ritroverà da subito smarrito fra i numerosi volumi aperti sulla sua
scrivania, poiché la bibliografia dei libri sul male e sulla paura è simile
alla Biblioteca infinita raccontata da Borges.[1] Lo smarrimento dell'animo viene amplificato dalle contingenti esperienze fatte
al di fuori di questo mondo letterario; poiché il necessario collegamento fra
vita e letteratura impegna il critico a non ritrovarsi metaforicamente miope
nei confronti della realtà, come quel personaggio pirandelliano, amante dei libri, della
novella Mondo di carta, il quale divenuto improvvisamente
cieco, riconosce che per aver sempre letto non aveva mai vissuto veramente
nella vita reale.[2]
La
crisi del critico di fronte al tema del male e della paura può diventare totale
nel momento in cui la souffrance,[3] che
costui riconosce in sé e in tutto ciò che è intorno, gli fa perdere coscienza
della funzione esistenziale e dell'utilità morale del suo lavoro, e lo lascia
bloccato in uno stato di angoscia interiore. Di fronte alla paura della
malattia e della morte, di fronte ad un male irrazionale e indicibile,
l'intellettuale perde la consapevolezza delle ragioni che sino a quel momento
lo avevano spinto sicuro nel suo impegno a «seguir
virtute e canoscenza».
Questo tipo di lettura critica amplifica la sensibilità recettiva sul male
stesso e sulle paure ad esso connesse; ogni azione viene posta in discussione,
e nel caso del nostro percorso critico arriveremo a interrogarci anche su quale
giovamento può portare la finzione della letteratura al male realmente vissuto,
e alla sensazione di angoscia che da esso scaturisce. Perché cercare in
Pirandello? Perché in Svevo?
La
comprensione del male finalizzata ad un dominio delle paure è un tema
universale e trasversale a tutte le discipline. L'intelligenza internazionale è
da ogni versante impegnata in questa indagine ‒ che nel presente deve fare i
conti con i numerosi Auschwitz nel
mondo, le minacce del terrorismo, e con un progresso distruttivo ‒ come
spettatrice inerme e divulgatrice inascoltata, incapace di generare
un'inversione di rotta. Con Caino che continua a soppiantare il suo prossimo,
presente e futuro, non considerandosene il guardiano: come può la letteratura oggi
dalle sue pagine parlarci ancora del male e delle paure dell'uomo?
Tzvetan
Todorov, in un suo famoso scritto[4] riflette sul fatto che «in un mondo dominato dalla
scienza e dalla tecnica, rischiamo di non capire più i grandi capolavori della
letteratura». Lo studioso sostiene che anche se «sul versante della critica, negli ultimi decenni,
abbiamo messo a punto una serie di strumenti assai efficaci per l'analisi dei
testi, a cominciare dalla filologia e dallo strutturalismo [...] rischiamo
comunque di perdere di vista quello che è il senso profondo delle opere
letterarie, quello che le rende importanti e necessarie». Nelle pagine di Todorov è possibile leggere
alcune risposte alla nostra stessa domanda: a che cosa ci serve, oggi, la
letteratura? Noi vorremmo rispondere a questa domanda con la voce di Primo
Levi:
Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non
abbiamo tempo di scegliere, quest'ora già non è più un'ora. [...] Come se
anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la
voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo [...]
ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli
uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo
ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. [...] - Kraut
und Rüben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: -
Choux et navets - Káposzta és répak. | Infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.[5]
Riportiamo
il v. 142 del XXVI canto dell'Inferno dantesco,
nella lezione data dal Petrocchi,[6] tradendo perciò il testo di Levi, dove la citazione non poteva che essere
mendace, in quanto si racconta l'episodio di come quel verso dantesco, insieme
a tutto il canto, viene richiamato disperatamente nella memoria dell'autore
durante la prigionia, e per tale motivo viene riportato nel testo leviano
corrotto, mutilo e fedele a quel ricordo. Accogliamo eccezionalmente questa
contraddizione filologica per cogliere in questa sede tutta la drammaticità di
questo nodo ipertestuale dove l'espressione umana del sentimento del male è
giunta al suo apice poetico, e allo stesso tempo rappresenta un invito a
superare la paura attraverso la letteratura. Il nostro obiettivo è quello di
ribadire la necessaria connessione della lettura critica con la vita reale, in
mancanza della quale si corre il rischio di trasfigurare la missione del
critico in quella di moderni Don Chisciotte che, senza uscire dalla Biblioteca
infinita, affrontano la paura del male idealmente senza opporvisi nella
società, anche solo a partire dalla scuola, educando i giovani con
l'esortazione di Flaubert «leggete per vivere».[7] Vogliamo, attraverso questo
nesso ipertestuale, mettere in rilievo il rischio, che potremo definire
egotistico, del mestiere del letterato. Il rischio che lo studioso dimentichi,
nello sforzo attento di ricostruire la lezione di un testo, nello scoprire la
fitta corrispondenza delle fonti, che quel lavoro non è fine a sé stesso, ma è
fatto per le stesse ragioni che hanno spinto gli scrittori a scrivere, vale a
dire per essere uomini. Questo rischio, per cui Todorov sente che la
letteratura è in pericolo, è a nostro avviso portato alle estreme conseguenze e
quindi nella sua essenzialità e verità, nell'esperienza realmente vissuta da
Levi nel lager, dove in uno scenario
senza la memoria dei libri, quindi senza il filologo, viene sentita l'assoluta
necessità di conservare la memoria scritta ma soprattutto e prima di tutto il
motivo esistenziale per cui va fatto. Levi racconta:
Avrei dato veramente pane e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla
quei ricordi, che oggi, col supporto sicuro della carta stampata, posso
rinfrescare quando voglio e gratis, e che perciò sembrano valere poco. Allora e
là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un legame col passato,
salvandolo dall'oblio e fortificando la mia identità. Mi convincevano che la
mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di
funzionare. Mi promuovevano, ai miei occhi ed a quelli del mio interlocutore.
Mi concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e
differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso.[8]
Solo in quell'ora dove, con le
parole di Levi, è possibile dimenticare «cavoli e rape» per non dir il peggio,
si può superare la paura e provare quello che succede al prigioniero che
richiama alla mente il canto di Dante, solo allora si può trovare consolazione
per le nostre paure nella finzione letteraria. Quando il mondo ritorna dentro di
noi per il tramite delle immagini e possiamo sentirlo altro da quello che viviamo
nell'immediato, provandone entusiasmo al di là del bene e del male, al di là
delle paure e delle malattie e difficoltà, solo in quel momento tutto diventa
chiaro e riconosciamo come nella letteratura, nella capacità di creare
immagini, impariamo a morire «com' altrui piacque», a superare le paure, fino a
quando il mare, l'infinito, sarà richiuso sopra di noi, intendendo il tempo
vissuto come un progressivo spegnimento; poiché come afferma Eco: «I racconti
"già fatti" ci insegnano anche a morire. Credo che questa educazione
al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse
ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente».[9] Tale
funzione manifesta da sé il suo valore nella misura in cui, è dimostrato, si
conserva anche nelle situazioni più «impossibili» come quella del lager. La letteratura, meglio
della filosofia, può chiarire il senso delle cose e assumere una funzione
consolatoria e salvifica; seguendo le orme dello scrittore, e ascoltando con
commozione il sentimento della vita che si affaccia sull'ignoto, il lettore può
ritornare a vedere in sé stesso il mondo e imparare a non averne paura. Se il lettore può trovare
consolazione per le sue paure nella comunicazione con lo scrittore attraverso
la letteratura, leggendo pour vivre o
«per imparare a morire», il critico, che è lettore e scrittore allo stesso
tempo, deve assumere il ruolo del facilitatore di questa comunicazione,
promuoverne l'incontro. Praticare l'educazione senza sentirsi appagati del
combattere solo contro i mulini di carta come Cavalieri dalla Trista Figura,
anche se sembrerà in alcuni momenti di predicare al deserto.[10]
Se anche
solo le vicende della storia attuale non ci possono far dimenticare che si
tratta effettivamente di una guerra interminabile contro il male, una guerra
piena di paure, dal nostro canto non possiamo che continuare a combatterla
armati di letteratura, cercando di sottrarre al perenne pericolo di rimanere
schiacciati nei meccanismi di una società che non ne sente quasi più il
bisogno, i racconti e le riflessioni di coloro che più di altri sono riusciti,
con le loro parole, a fornire sollievo alle paure dell'uomo.