Pietre della mia Terra: racconto esperienze vissute nella ricerca, nel volontariato, nella promozione sociale e negli eventi culturali, attraverso i colori e i lamenti della Terra dei Messapi. La mia Terra. Scontri e incontri in un territorio aspro e amato. Dure battaglie per sfuggire alla parte oscura di noi... percorrendo le bianche strade di polvere e pietre del nostro destino.

giovedì 18 febbraio 2016

Verità per Giulio Regeni

«Sono in Cairo, in questo mondo nuovo per me [...] Come sono venuto qui, come ho avuto il coraggio di venirci? Quando penso ai mesi passati dal 23 Ottobre come mi sorprendo di tutto ciò che successe! Dal momento che pell'ultima volta abbracciai mamma, che da bordo del "Vorwaerts" salutai tutti i parenti riuniti sul molo, dal momento che al mio occhio si perdette la mia Trieste, da quel momento soltanto io compresi tutta la grandezza, tutta l'enormità, tutta la portata del mio passo; altrimenti non sarei partito.

Compresi in quel momento che d'ora in poi dovrei sforzarmi ad essere un uomo, a sopportare con quel coraggio che a me fa difetto tutti i colpi della sorte ed a sopportarli solo, giacché su chi potrei appoggiarmi ora che i miei mi mancano?» (Cairo, 4 Gennaio 1886) 

da Diario di Elio Schmitz, a cura di B. Maier, Dall'Oglio, Milano 1973, pp. 296-97.

Cosa hanno in comune il giovane friulano Giulio Regeni e il fratello di Italo Svevo? Forse nulla, forse chissà solo la paura. Cosa ho io, invece, in comune con il ricercatore dell'università di Cambridge? Ancor meno di nulla, niente. In questi giorni mi trovo nel vivo delle mie ricerche sveviane, e lo sguardo fermandosi su questo passo del Diario di Elio mi rimanda ossessivamente alla vicenda del ricercatore, cittadino del mondo, barbaramente ucciso mentre svolge il suo lavoro. Penso ossessivamente al male che la vita può da un momento all'altro riservare a un figlio cresciuto e formato nel migliore dei modi possibili, come ogni genitore vorrebbe.

Fra mondi di carta e vita reale: governare la paura nella lunga lotta contro il male.

Da qualche anno indago il sentimento del male espresso attraverso la letteratura, e di recente mi è capitato di riflettere anche sul tema della paura. In questo spazio che raccoglie la mia vita come un diario (versione digitale dello Zibaldone cartaceo inaugurato al liceo, su suggerimento del docente di lettere), voglio fermare alcune riflessioni che mi permettono di portare avanti il mio lavoro, si tratta di premesse indispensabili senza le quali non riuscirei a scrivere nulla. 
Una ricerca sul male apre innanzi al critico, intento a ripercorrere questo rapporto, un campo di indagine sterminato. Lo studioso si ritroverà da subito smarrito fra i numerosi volumi aperti sulla sua scrivania, poiché la bibliografia dei libri sul male e sulla paura è simile alla Biblioteca infinita raccontata da Borges.[1] Lo smarrimento dell'animo viene amplificato dalle contingenti esperienze fatte al di fuori di questo mondo letterario; poiché il necessario collegamento fra vita e letteratura impegna il critico a non ritrovarsi metaforicamente miope nei confronti della realtà, come quel personaggio pirandelliano, amante dei libri, della novella Mondo di carta, il quale divenuto improvvisamente cieco, riconosce che per aver sempre letto non aveva mai vissuto veramente nella vita reale.[2]
La crisi del critico di fronte al tema del male e della paura può diventare totale nel momento in cui la souffrance,[3] che costui riconosce in sé e in tutto ciò che è intorno, gli fa perdere coscienza della funzione esistenziale e dell'utilità morale del suo lavoro, e lo lascia bloccato in uno stato di angoscia interiore. Di fronte alla paura della malattia e della morte, di fronte ad un male irrazionale e indicibile, l'intellettuale perde la consapevolezza delle ragioni che sino a quel momento lo avevano spinto sicuro nel suo impegno a «seguir virtute e canoscenza».
Questo tipo di lettura critica amplifica la sensibilità recettiva sul male stesso e sulle paure ad esso connesse; ogni azione viene posta in discussione, e nel caso del nostro percorso critico arriveremo a interrogarci anche su quale giovamento può portare la finzione della letteratura al male realmente vissuto, e alla sensazione di angoscia che da esso scaturisce. Perché cercare in Pirandello? Perché in Svevo?
La comprensione del male finalizzata ad un dominio delle paure è un tema universale e trasversale a tutte le discipline. L'intelligenza internazionale è da ogni versante impegnata in questa indagine ‒ che nel presente deve fare i conti con i numerosi Auschwitz nel mondo, le minacce del terrorismo, e con un progresso distruttivo ‒ come spettatrice inerme e divulgatrice inascoltata, incapace di generare un'inversione di rotta. Con Caino che continua a soppiantare il suo prossimo, presente e futuro, non considerandosene il guardiano: come può la letteratura oggi dalle sue pagine parlarci ancora del male e delle paure dell'uomo?
Tzvetan Todorov, in un suo famoso scritto[4] riflette sul fatto che «in un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica, rischiamo di non capire più i grandi capolavori della letteratura». Lo studioso sostiene che anche se «sul versante della critica, negli ultimi decenni, abbiamo messo a punto una serie di strumenti assai efficaci per l'analisi dei testi, a cominciare dalla filologia e dallo strutturalismo [...] rischiamo comunque di perdere di vista quello che è il senso profondo delle opere letterarie, quello che le rende importanti e necessarie». Nelle pagine di Todorov è possibile leggere alcune risposte alla nostra stessa domanda: a che cosa ci serve, oggi, la letteratura? Noi vorremmo rispondere a questa domanda con la voce di Primo Levi:

Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest'ora già non è più un'ora. [...] Come se anch'io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo [...] ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. [...] - Kraut und Rüben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et navets - Káposzta és répak. Infin che 'l mar fu sovra noi richiuso.[5]

Riportiamo il v. 142 del XXVI canto dell'Inferno dantesco, nella lezione data dal Petrocchi,[6] tradendo perciò il testo di Levi, dove la citazione non poteva che essere mendace, in quanto si racconta l'episodio di come quel verso dantesco, insieme a tutto il canto, viene richiamato disperatamente nella memoria dell'autore durante la prigionia, e per tale motivo viene riportato nel testo leviano corrotto, mutilo e fedele a quel ricordo. Accogliamo eccezionalmente questa contraddizione filologica per cogliere in questa sede tutta la drammaticità di questo nodo ipertestuale dove l'espressione umana del sentimento del male è giunta al suo apice poetico, e allo stesso tempo rappresenta un invito a superare la paura attraverso la letteratura. Il nostro obiettivo è quello di ribadire la necessaria connessione della lettura critica con la vita reale, in mancanza della quale si corre il rischio di trasfigurare la missione del critico in quella di moderni Don Chisciotte che, senza uscire dalla Biblioteca infinita, affrontano la paura del male idealmente senza opporvisi nella società, anche solo a partire dalla scuola, educando i giovani con l'esortazione di Flaubert «leggete per vivere».[7] Vogliamo, attraverso questo nesso ipertestuale, mettere in rilievo il rischio, che potremo definire egotistico, del mestiere del letterato. Il rischio che lo studioso dimentichi, nello sforzo attento di ricostruire la lezione di un testo, nello scoprire la fitta corrispondenza delle fonti, che quel lavoro non è fine a sé stesso, ma è fatto per le stesse ragioni che hanno spinto gli scrittori a scrivere, vale a dire per essere uomini. Questo rischio, per cui Todorov sente che la letteratura è in pericolo, è a nostro avviso portato alle estreme conseguenze e quindi nella sua essenzialità e verità, nell'esperienza realmente vissuta da Levi nel lager, dove in uno scenario senza la memoria dei libri, quindi senza il filologo, viene sentita l'assoluta necessità di conservare la memoria scritta ma soprattutto e prima di tutto il motivo esistenziale per cui va fatto. Levi racconta:

Avrei dato veramente pane e zuppa, cioè sangue, per salvare dal nulla quei ricordi, che oggi, col supporto sicuro della carta stampata, posso rinfrescare quando voglio e gratis, e che perciò sembrano valere poco. Allora e là, valevano molto. Mi permettevano di ristabilire un legame col passato, salvandolo dall'oblio e fortificando la mia identità. Mi convincevano che la mia mente, benché stretta dalle necessità quotidiane, non aveva cessato di funzionare. Mi promuovevano, ai miei occhi ed a quelli del mio interlocutore. Mi concedevano una vacanza effimera ma non ebete, anzi liberatoria e differenziale: un modo insomma di ritrovare me stesso.[8]

Solo in quell'ora dove, con le parole di Levi, è possibile dimenticare «cavoli e rape» per non dir il peggio, si può superare la paura e provare quello che succede al prigioniero che richiama alla mente il canto di Dante, solo allora si può trovare consolazione per le nostre paure nella finzione letteraria. Quando il mondo ritorna dentro di noi per il tramite delle immagini e possiamo sentirlo altro da quello che viviamo nell'immediato, provandone entusiasmo al di là del bene e del male, al di là delle paure e delle malattie e difficoltà, solo in quel momento tutto diventa chiaro e riconosciamo come nella letteratura, nella capacità di creare immagini, impariamo a morire «com' altrui piacque», a superare le paure, fino a quando il mare, l'infinito, sarà richiuso sopra di noi, intendendo il tempo vissuto come un progressivo spegnimento; poiché come afferma Eco: «I racconti "già fatti" ci insegnano anche a morire. Credo che questa educazione al Fato e alla morte sia una delle funzioni principali della letteratura. Forse ce ne sono altre, ma ora non mi vengono in mente».[9] Tale funzione manifesta da sé il suo valore nella misura in cui, è dimostrato, si conserva anche nelle situazioni più «impossibili» come quella del lager. La letteratura, meglio della filosofia, può chiarire il senso delle cose e assumere una funzione consolatoria e salvifica; seguendo le orme dello scrittore, e ascoltando con commozione il sentimento della vita che si affaccia sull'ignoto, il lettore può ritornare a vedere in sé stesso il mondo e imparare a non averne paura. Se il lettore può trovare consolazione per le sue paure nella comunicazione con lo scrittore attraverso la letteratura, leggendo pour vivre o «per imparare a morire», il critico, che è lettore e scrittore allo stesso tempo, deve assumere il ruolo del facilitatore di questa comunicazione, promuoverne l'incontro. Praticare l'educazione senza sentirsi appagati del combattere solo contro i mulini di carta come Cavalieri dalla Trista Figura, anche se sembrerà in alcuni momenti di predicare al deserto.[10] 
Se anche solo le vicende della storia attuale non ci possono far dimenticare che si tratta effettivamente di una guerra interminabile contro il male, una guerra piena di paure, dal nostro canto non possiamo che continuare a combatterla armati di letteratura, cercando di sottrarre al perenne pericolo di rimanere schiacciati nei meccanismi di una società che non ne sente quasi più il bisogno, i racconti e le riflessioni di coloro che più di altri sono riusciti, con le loro parole, a fornire sollievo alle paure dell'uomo.




[1] J. L. Borges, La biblioteca de Babel, in El jardín de los senderos que se bifurcan, Buenos Aires, Sur, 1941, pp. 85-95.
[2] L. Pirandello, Mondo di carta, pubblicata per la prima volta in «Corriere della sera», 4 ottobre 1909; ora in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, 3 voll. in 6 tt., Milano, Mondadori («I Meridiani»), 1985-1990, vol. I, pp. 1019-1028.
[3] La condizione necessaria degli enti sensibili: cfr. G. Leopardi, Zibaldone di pensieri (1817-1832), edizione critica a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991, pp. 4133-4134 (indico, com'è convenzione, le pagine del manoscritto leopardiano).
[4] Cfr. T. Todorov, La letteratura in pericolo, trad. it. di E. Lana, Milano, Garzanti, 2008 (ed. or. La littérature en péril, Paris, Flammarion, 2007).
[5] P. Levi, Se questo è un uomo (1947), in Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi, Torino 2000, pp. 100-103.
[6] Dante A., Inferno, in La Commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, 4 vol., Milano, Edizione nazionale della Società Dantesca Italiana, 1966, vol. II.
[7] G. Flaubert, Lettre à Mademoiselle Leroyer de Chantepie (Croisset, juin 1857), in Oeuvres complètes de Gustave Flaubert. Correspondance. Quatrième séries (1854-1861), Paris, L. Conard, 1927, p. 197.
[8] P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), Einaudi, Torino 2008, pp. 112-113.
[9] U. Eco, Su alcune funzioni della letteratura, in Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002 p. 22.
[10] «È proprio a questo che Levi ha dedicato la sua vita, scrivendo, parlando e dando a noi l'esempio di un uomo che non si è lasciato contaminare da quello stesso male in cui si è trovato immerso; dando vita a racconti e riflessioni [...] è riuscito a spingere i suoi milioni di lettori a prender coscienza del male, sia fuori che dentro di loro. Certi giorni Levi doveva sentirsi scoraggiato vedendo [...] che le virtù acquisite non fossero né contagiose né ereditarie, scoraggiato di dover ricominciare il lavoro da zero con ogni nuovo individuo. Altri giorni, più realista, si ricordava invece di ritrovarsi di fronte ad "una guerra senza fine"» (Prefazione di T. Todorov a P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), cit., p. XI; si veda anche T. Todorov, Mémoire du mal, Tentation du bien, Paris, Laffont, 2000; e P. Levi, Dello scrivere oscuro, in L'altrui mestiere (1985), Torino, Einaudi, 2009, pp. 49-55).

venerdì 12 febbraio 2016

Working paper «La lampada con il mantino verde» dei Pirandello pubblicato da Ligamina

Ligamina Inc  è una charity statunitense volta alla conservazione e studio del patrimonio artistico del centro storico di Roma e, in modo particolare, delle sue innumerevoli chiese.


Il working paper è stato diffuso attraverso la newsletter n. 2 del 04 febbraio 2016.

«La lampada con il mantino verde» between fathers and sons changed : notes on the use of color in the first Pirandello .

by Donatella Nisi
In this notes the focus will be on color of props in Pirandello’s early theatrical works, and their role in the actions of characters. While a green wool blanket evokes on the stage Nature as an escape route from reality, a green lamp shade, which appears in various Pirandello's texts and also in Pirandello's portrait painted by his son Fausto in 1933, suggests a digression on the relationship between fathers and sons inside and outside the stage.


Donatella Nisi is a PhD-Student of the Doctoral Program in Modern and Classical Languages, Literatures and Cultures at University of Salento, Italy. Her research interests include Italian literature, Comparative Literature and Criticism, with special attention to Literature of the 20th century  - and a particular focus on the ‘evil’ in literature - as well as Italo Svevo’s  theatrical works and Pirandello's works. She focuses in particular on Pirandello's plays and short stories. In 2015, she won the Society for Pirandello Studies' essay competition, the prize of the winning essay will be the publication in the Society’s journal Pirandello Studies, volume 36 (2016).